“Un cuore di ferro e acciaio, freddo duro e muto, batte in te. Vieni.

Entra nella città del massacro, devi vedere con i tuoi occhi

toccare con le tue mani sugli steccati, i pali, sulle porte e i muri

sul selciato delle strade, su tutti gli alberi

il sangue annerito e raggrumato

e dei tuoi fratelli morti le teste e le gole.

Devi vagare tra le rovine, fra pareti abbattute con porte sfondate

davanti a forni sventrati, camini crollati, nere pietre divelte, mattoni anneriti

dove fuoco ascia e ferro hanno inscenato ieri una danza feroce per le nozze di sangue.

Ti muovi, corri, inciampi tra miseri resti,

ottone, argento, pellicce, libri sacri, seta e raso stracciati e ridotti a brandelli,

sabati, giorni di festa, doti matrimoniali calpestate, scialli di preghiera,

tefillin, pergamene, frammenti di Torah, rotoli sacri, bianche fasce rituali che guarda,

dovevano avvolgere la tua anima e invece ti si aggrovigliano ai piedi

baciano i tuoi passi venuti dalla sporcizia e tolgono la polvere dalle tue scarpe.

Scappi? Vuoi sfuggire la luce e l’aria? Corri pure, il cielo ti deride

il sole con i suoi caldi dardi ti trafigge lo sguardo,

le acacie coperte di fresco verde e bianco

vogliono avvelenarti con un odore frammisto di sangue e fiori,

cospargere la tua testa di petali e piume;

perché Dio, con mano benevola, ti ha fatto due doni: un massacro e una primavera.

Il giardino fioriva, il sole splendeva, e il massacratore massacrava.

La lama riluceva, e dalla ferita sgorgava sangue e oro.

Vorresti fuggire, cercare a rifugio in un cortile: inutile.

Lì ci sono mucchi di rifiuti, e ci sono due corpi senza testa: un ebreo e il suo cane.

Ieri, nel mezzo del cortile, un’ascia li ha decapitati

e oggi li ha trascinati lì un maiale, scalpicciando e grufolando nel loro sangue mescolato.

Ma calmati, domani verrà una fresca pioggia a lavare il sangue nei rivoli

affinché dai rifiuti non possa invocare aiuto al cielo,

anzi, forse è già penetrato nelle profondità della terra

a nutrire i cardi sullo steccato incurvato.

Domani il sole come oggi, come ieri, come tutti i giorni

Si leverà radioso da oriente e non darà meno luce,

e sarà leggero e silenzioso come sempre.”

 

Scusatemi se ho cominciato in una maniera un po’ fuori dalle righe. Sono parole di Chaim Nachman Bialik, è un poema che scrisse in yiddish e in ebraico nel 1903 raccontando la sua esperienza nel vagare fra la distruzione del pogrom di Kishinev, non lontano da Odessa, nei luoghi di un altro conflitto che oggi quasi ci appare in secondo piano.

Ho voluto cominciare con queste parole perché era l’unico modo di trasmettervi quello che gli ebrei, non solo della comunità ebraica di Firenze, ma di tutto il mondo hanno avuto davanti agli occhi e nel cuore quando sono arrivate le notizie, le immagini, le testimonianze di ciò che era accaduto nei luoghi colpiti dalla furia di Hamas sabato mattina. Quello è l’unico paragone possibile, il paragone dei pogrom, dei massacri per che hanno insanguinato l’Europa per secoli fino a culminare nelle razzie della furia nazifascista. Oggi è il 15 ottobre, domani è l’ottantesimo anniversario della razzia di Roma che dà il via a tutta una serie di appuntamenti con la memoria: qui a Firenze il 6 novembre, poi il 15 novembre a Ferrara. I pogrom del centro ed est europa, le razzie che hanno macchiato questo paese esattamente 80 anni fa: quelli sono i pensieri che hanno colpito noi e molti tra voi credo assistendo alle notizie che giungevano da Israele ,quello è l’unico paragone possibile. Quell’aggressione non si inscrive in alcuna lotta di liberazione, in alcun conflitto, in alcuna causa quella aggressione è un’atto di odio, di barbarie e di disumanità.

 

Ringrazio davvero Marco Carrai per averci dato questa giornata, e voglio usarla per parlarvi non soltanto di dolore; ma porsi anche il problema di cosa fare. Si può fare qualcosa concretamente – posso pubblicizzare il sito della comunità dove ci sono opportunità per contribuire e ce n’è bisogno, aiuti che vanno alle famiglie dei colpiti, ma non è questo che voglio fare adesso, qui voglio parlare a chi ho davanti per dire cosa possiamo fare con le nostre idee, con le ragioni che condividiamo. Chi ho qui di fronte a me sostiene Israele, è convinto delle ragioni di Israele non ho motivo di pensare altrimenti, siete qui. Ma credo che qui In Europa, in Italia, a Firenze dobbiamo impegnarci a parlare anche a chi qui non è. Dobbiamo impegnarci a spiegare queste ragioni a chi era ad altre manifestazioni; a chi giustamente chiede pace e non è venuto qui, ma se noi riuscireamo a parlargli potrà comprendere meglio le ragioni di Israele.

 

Vedete, io qui lo posso dire senza paura di essere guardato male: io sono sionista. Per quanto possa aver significato dirsi sionista dopo il 1948: io mi ritrovo, credo profondamente, convintamente, disperatamente vorrei dire, nell’ideale delle madri e dei padri del sionismo, l’ideale di creare un luogo per la vita ebraica in quella terra, quella terra che non era mai stata abbandonata, non solo con la speranza e col cuore ma con la presenza fisica, ricordiamolo. In quel luogo che ha visto gli ebrei aggrapparsi tenacemente alla vita anche lì, per i lunghi secoli dell’esilio. Quel sogno non era un sogno colonialista, un sogno razzista: eppure oggi quando dico di essere sionista una gran parte del nostro paese civile, magari anche benintenzionato, mi guarda come un mostro; perché nell’immaginario collettivo, non soltanto di chi è un estremista filo palestinese, ma in gran parte dell’opinione pubblica, è passata questa bugia. Quando è nato il sionismo, esisteva sì il colonialismo. L’Italia, faceva parte di quei paesi che si macchiavano di crimini inenarrabili nei confronti di popolazioni autoctone, andavano con le armi, uccidevano, massacravano, instauravano regimi, sfruttavano quei luoghi per portare ricchezze a casa. L’ideale delle donne e degli uomini che sognavano Sion era tutt’altro; era l’ideale di comprare terreni con i bussolotti che i miei nonni e bisnonni avevano a casa, con gli spiccioli, oltre che con le grandi donazioni ma con gli spiccioli di tutti gli ebrei della diaspora, mettere insieme i soldi e comprare pezzi di terra e andarli a lavorare. A lavorare, insieme a chi abitava in quei grandi latifondi, che erano quella che oggi è la terra di Israele. Quello era un sogno forse ingenuo, ma non era certo colonialismo: e un paese che ha fatto parte del colonialismo vero dovrebbe sciacquarsi la bocca col sapone quando accusa di colonialismo l’idea stessa di Israele.

 

Io sono sionista e proprio perché lo sono, ho a cuore il futuro dei palestinesi. Nel profondo del cuore: perché non c’è un futuro per Israele di serenità senza un futuro per i palestinesi.  E allora, io vi dico, dobbiamo parlare a chi ritiene di stare dall’altra parte; e dire no, la parte è una sola, perché se avete a cuore il futuro dei palestinesi dovete avere anche a cuore Israele, il futuro di Israele.

 

Nel poema che vi ho letto all’inizio Bialik non riesce neanche a descrivere il massacratore: parla di un’ascia, che ha decapitato l’ebreo e il cane. Quando guardiamo a chi ha compiuto gli atti di sabato scorso ci lasciamo andare spesso a dire che sono dei mostri,  delle belve disumane. Io non credo ai mostri. Anche se quelle azioni non hanno niente di umano io non credo ai mostri, credo che quando parliamo di mostri usiamo semplificazioni che ci servono a non affrontare la realtà delle cose. Quelli non erano mostri ma persone, persone che evidentemente sono cresciute, sono state educate in un contesto che li ha private di qualunque umanità. Quell’umanità che serve per riconoscere un bambino. Quell’odio che li ha nutriti è ciò contro cui dobbiamo combattere; e in qualche misura è qualcosa che possiamo fare anche da qui. Io sono una persona, lo sanno tutti, di sinistra, e comprendo benissimo le ragioni di chi ha principalmente nel cuore la causa palestinese. Di chi ritiene di stare “dall’altra parte”. Ma io dico a tutti quelli che che sentono giustamente la vicinanza con la causa palestinese, che il nostro nemico comune è l’odio. Sono quelle bugie che rendono il sionismo di per sé un crimine contro l’umanità, razzismo come definì la terribile assemblea di Durban, quelle bugie che rendono lo stato di Israele il male: perché se lo stato di Israele è il male, se l’idea alla base dello stato di Israele è razzista, allora l’unica strada è cancellarlo. Se Israele è, come dicevano i manifesti aberranti attaccati in questa città, “Apartheid” (attenzione, non parlando dei territori dove l’occupazione esiste da troppi anni, ma di Israele), se Israele è uno stato di apartheid, allora va abbattuto. Allora è inutile parlare di due popoli due stati, allora giustizia vorrebbe la cancellazione di Israele. Se lasciamo passare queste bugie non c’è speranza. Se lasciamo dire come ieri, e lo dico ai miei amici che erano ieri alla manifestazione per la Palestina, se lasciamo dire  che l’occupazione dura da 75 anni, cosa stiamo dicendo?! Che Israele è l’occupazione di per sé! Che qualunque confine di Israele è occupazione. Se partiamo da queso presupposto, allora ha ragione  chi ha educato all’odio la generazione che è arrivata a compiere il massacro nei giorni scorsi. Se l’occupazione dura da 75 anni, vuol dire che Israele non ha diritto a esistere, vuol dire che Israele è un male, è un cancro, va estirpato.

 

No, noi dobbiamo riuscire a parlare. Noi che viviamo “sicuri nelle nostre tiepide case” per parafrasare Primo Levi, dobbiamo poter parlare a chi ha a cuore la causa palestinese e dir loro: benissimo, è giusto. Ma dovete togliere di mezzo la bugia per cui Israele è l’avamposto del nemico occidentale, dei “Crociati”, del colonialismo, dell’imperialismo americano, il complotto plutogiudaicomassonico o quant’altro. Bisogna dire che l’idea che Israele è la causa di tutti i loro mali è una bugia, ed è l’ostacolo principale di qualunque futuro di pace. Bisogna ricordare che i palestinesi sono vittime; sì, è vero, sono vittime sono vittime, ma anche (e io direi soprattutto; ma cominciamo con un semplice “anche”) del cinismo degli Stati arabi e non solo che hanno continuato a tenerli in quella in quella condizione per decenni per usarli come grimaldello contro Israele. Dobbiamo avere il coraggio di spiegare queste cose senza porsi dall’altra parte di uno steccato, come una tifoseria, cercare solo di aver ragione, di farne una battaglia politica fra schieramenti o fra troll su Internet. Dobbiamo parlare con il cuore in mano: non in quei territori, dove è impossibile oggi, guardate il dolore, l’odio; ma qui, in Italia, in Europa, a Firenze, dobbiamo poter parlare con chi ha a cuore la causa palestinese e dire: il problema è il riconoscimento reciproco. Se voi non aiutate quel popolo che sostenete a comprenderlo, se non pretendete che cessi l’educazione all’odio, se non cominciamo da qui come speriamo che possa avvenire là.

 

E allora, solo allora, se riusciremo piano piano a incamminarci in questa direzione; oggi siamo tutti quasi senza speranza, ma se riusciremo piano piano a cominciare un discorso diverso, da qui, oggi, lontani dal conflitto, allora forse potrà tornare a brillare il sogno delle madri e dei padri sionisti, il sogno che oggi pare irrealizzabile e si chiama due popoli e due Stati.

 

Enrico Fink

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